I tentativi di censura non sono un segno di forza, ma di debolezza

di Ben White

Per anni, le lobby israeliane hanno bollato l’appello dei palestinesi per il boicottaggio delle università israeliane come attacco alla “libertà accademica”. Ora la maschera è finalmente caduta. 

Il mese prossimo, all’Università di Southampton nel Regno Unito, si terrà una conferenza su Israele e il diritto internazionale che riunirà “studiosi di diritto, politica, filosofia, teologia, antropologia, storia, studi culturali e altre discipline connesse”.

Tuttavia, in un impudico attacco alla libertà di parola, è aumentata la pressione perché l’università annullasse l’evento. Alla fine dell’anno scorso, il Comitato dei Deputati Ebrei Britannici, il Jewish Leadership Council, e l’Unione degli studenti ebrei hanno scritto al direttore della Scuola di Giurisprudenza di Southampton, sostenendo che la conferenza “andrebbe oltre l’ammissibile”.

Nel mese di febbraio, queste organizzazioni si sono riunite nella coalizione Università del Regno Unito, e hanno lamentato che la “libertà di parola” impediva alle università di “prendere in considerazione rappresentazioni valide per la comunità ebraica”. Stranamente, era presente anche l’ambasciatore britannico in Israele, Matthew Gould.

Attacchi continui

Nelle ultime settimane vi è stato un flusso costante di attacchi contro l’Università di Southampton, tra cui il suggerimento che la conferenza avrebbe reso l’università “complice nel favorire la montante e straziante ondata di antisemitismo in Europa”.

Disturba che sia intervenuto anche il Ministro per le Comunità, Eric Pickles, ponendosi come arbitro di ciò che si trova oltre i confini del “legittimo dibattito accademico”.

L’università ha invece sottolineato l’obbligo di legge di proteggere la libertà di parola. Un portavoce ha detto che l’università “difende la libertà accademica, la libertà di parola e le opportunità per il personale e gli studenti di discutere di una vasta gamma di opinioni e prospettive”.

Nel frattempo, centinaia di docenti e ricercatori hanno firmato una dichiarazione a sostegno della libertà accademica. Professori delle università di Oxford, Cambridge, della London School of Economics, di Harvard, del MIT, dell’Università della California e altre hanno condannato “i tentativi di parte” compiuti per “mettere sotto silenzio analisi dissenzienti del tema in questione”.

L’intero episodio è istruttivo del modo in cui i sostenitori di Israele cercano ipocritamente e in mala fede di soffocare la discussione critica.

In primo luogo, gli oppositori del boicottaggio accademico di Israele si presentano come difensori della “libertà accademica” - anche se la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è basata sulla complicità istituzionale delle università israeliane nell’occupazione e in crimini di guerra. Il significato di libertà di parola viene ridefinito come discussione che non disturbi i difensori intransigenti di Israele.

I timori di ‘estremismo’

Eppure gli stessi lobbisti israeliani che erroneamente dicono che il BDS è un attacco alla libertà accademica ora vogliono impedire una conferenza semplicemente perché non gli piacciono le idee che verranno discusse. Infatti, in un gesto che ricorda il maccartismo, la coalizione anti-BDS ha passato in rassegna 56 conferenzieri, etichettandone 45 come “anti-israeliani”.

In secondo luogo, la strategia iniziale – dopo l’attacco privato, quello pubblico - è stata quello di insinuare che la conferenza avrebbe in qualche modo nuociuto ai “rapporti tra le comunità”, un tentativo trasparente di attingere a timori circa “l’estremismo” e l’antisemitismo.

Ad alcuni funzionari universitari è stato detto da coloro che cercano di censurare che la conferenza stava causando “grande preoccupazione e angoscia” e che avrebbe potuto avere “conseguenze dannose per il benessere degli studenti e i rapporti tra le comunità nel campus”. Il direttore del Jewish Leadership Council, Simon Johnson, ha affermato che la conferenza avrebbe avuto “un impatto negativo sul sentimento comunitario”.

Questo tipo di discorso rappresenta un trend in crescita. Il Comitato dei Deputati, per esempio, ha citato “la coesione della comunità”, per opporsi ai Consigli locali che espongono bandiere palestinesi in un gesto di solidarietà nei confronti di un popolo occupato.

In terzo luogo, il significato di libertà di parola viene rivisitato in modo da significare discussione che non disturbi i difensori intransigenti di Israele. Il vicepresidente del Comitato dei Deputati, Jonathan Arkush, ha chiesto che a meno che l’università “rimodulasse” il convegno, questo “avrebbe dovuto essere annullato”. Ha detto che non si trattava di censura, ma “semplicemente” di chiedere “un dibattito equilibrato”.

Imparzialità

L’“insistenza” del Comitato sulla cosiddetta imparzialità è ironica, dato che il tesoriere uscente dell’organizzazione ha dichiarato di non potere criticare Israele, finché era in carica. Secondo Laurence Brass, chi esprime la propria opinione “è sottoposto a critiche personali molto dure e talvolta persino ad insulti”. Infatti, Arkush stesso ha chiesto a Brass di tacere.

Il doppio standard va oltre la parodia. Douglas Murray, della fondazione neo-conservatrice The Henry Jackson Society, ha dichiarato che la conferenza non è protetta dalla libertà di parola, perché è “unilaterale” - pochi giorni dopo aver scritto un articolo in cui affermava che “la Gran Bretagna è ora un paese in cui la libertà di parola è problematica”.

La deputata Caroline Nokes, nel frattempo, ha descritto la “libertà accademica” come “sacrosanta” e subito dopo, senza neanche rendersene conto, ha detto che si poteva fare un’eccezione a tale principio inviolabile nel caso di questa conferenza “apparentemente unilaterale”.

“Non si tratta di libertà accademica”, ha scritto la Federazione Sionista in una petizione. Protestano fin troppo. Ma non è solo questione di resistere a un attacco alla libertà accademica mascherato da preoccupazione per “l’uniteralità” o “i rapporti tra le comunità”.

In una prospettiva più ampia si tratta della continuazione degli sforzi per mettere a tacere il dibattito critico e punti di vista diversi, in particolare il punto di vista palestinese, in un momento in cui la voce degli espulsi e degli occupati viene sentita più forte che mai. I tentativi di censura non sono un segno di forza, ma di debolezza.

Ben White è un giornalista freelance, scrittore e attivista, specializzato in Palestina / Israele. 

Fonte: Al Jazeera

Traduzione di Federico Zanettin