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Le forze armate israeliane hanno distrutto 1000 metri di conduttura che serviva a fornire l’acqua alle comunità palestinesi. Interruzione della regolare erogazione di acqua corrente per circa un anno. 

di Jessica Purkiss

La settimana scorsa, nel nord della Valle del Giordano, l’esercito israeliano ha distrutto 1000 metri di conduttura, che serviva a fornire l’acqua alle comunità palestinesi. A Gerusalemme est, decine di migliaia di palestinesi sono stati privati della regolare fornitura d’acqua corrente per circa un anno. A Gaza le infrastrutture idriche sono state decimate e nelle case che ricevono l’acqua, questa non è ancora potabile. L’acqua e coloro che la controllano sono diventati un elemento chiave dell’occupazione israeliana, con i territori occupati, Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, in continua lotta per la vitale risorsa.

Prima della nascita di Israele, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente del Paese, disse nel 1919: “E’ di vitale importanza non solo garantire tutte le risorse idriche che già affluiscono nel Paese, ma anche avere il controllo sulla loro sorgente.” Rafael Eitan, capo dello staff e ministro dell’agricoltura e dell’ambiente, disse alcuni anni dopo: “Israele deve conservare la Cisgiordania per assicurarsi che i rubinetti di Tel Aviv non restino all’asciutto.”

L’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto nel 1998: “Quando parlo dell’importanza della sicurezza di Israele…intendo dire che una casalinga di Tel Aviv può aprire il rubinetto e trovare l’acqua che scorre, e che non sia prosciugata a causa di un’improvvida decisione che ha ceduto il controllo delle nostre falde acquifere alle mani sbagliate.”

di Stephanie Westbrook

Non vi è alcun segnale di uscita dalla Route 40 per la strada sterrata che conduce al villaggio di al-Araqib.

Situato nel Naqab (Negev) regione dell'attuale Israele, al-Araqib è più antico dello stato stesso: il suo cimitero risale al 1914. E tuttavia questo non è considerato significativo da parte delle autorità.

Sede di una comunità beduina palestinese, al-Araqib è considerato un "villaggio non riconosciuto" da parte di Israele.

Ciò dà alle autorità una scusa per privare questo e molti altri villaggi beduini di servizi essenziali come l'elettricità e l'acqua.

I profitti eccessivamente alti registrati dalla Mekorot, i costi pesanti ed esagerati su cui si basano i suoi calcoli e la continua inefficienza nella sua gestione, in quanto monopolio di servizi idrici, stanno causando tariffe dell'acqua esorbitanti per i consumatori e sprechi di risorse, tra le altre cose, mentre Mekorot esige ripetutamente rialzi delle tariffe dell’acqua per tutti i consumatori.

Questi i risultati riportati dal comitato consulente per la regolamentazione economica a lungo termine per il settore idrico, guidata dal presidente Ram Belinkov, già direttore generale del Ministero dell'Interno e responsabile del budget del Ministero delle Finanze. Tra le altre cose, Belinkov è anche attualmente presidente di Israele Ports Development & Assets Company Ltd. 

Fonte: Globes

Traduzione di BDS Italia

Lungo la strada che che va da Ramle a Lod, a venti minuti di auto dal centro di Tel Aviv e a un paio di chilometri dall'areoporto Ben Gurion, si trova il villaggio arabo di Dahmash. Seicento persone che occupano un fazzoletto di terra stretto tra strade a scorrimento veloce e la ferrovia , assediato da rifiuti e sfasciacarrozze. Profughi dal 1948 ma senza vedere riconosciuto il proprio status dall'Onu, non essendo scappati in Giordania o altrove, gli abitanti di Dahmash hanno costruito qua la propria città ai margini della capitale dello Stato di Israele. Dalle prime baracche e le tende a casa a tre piani, qui hanno lavorato per costruirsi una casa dignitosa tre generazioni. Dopo più di sessant'anni per Israele gli abitanti di Dahmash sono ancora abusivi, per la burocrazia li dove vivono da generazione ci sono dei terreni agricoli e non delle case, eppure la corrente e l'acqua i palestinesi di Dahmash la pagano e a caro prezzo. Tubature, fogne, impianti d'illuminazione si sono costruiti tutto da soli: Ramle, Lod e Tel Aviv si sono rifiutati di accoglierli tra i loro cittadini. Così ecco gli ordini di demolizione e ogni tanto le ruspe che tirano giù un'abitazione.

Ora la vittoria per gli abitanti di questo vero e proprio quartiere rischia di diventare una debacle: la suprema corte israeliana potrebbe riconoscere il loro diritto ad esistere alla fine di una decennale battaglia legale della comunità, così aumentano le pressioni per velocizzare lo sgombero e l'abbattimento delle case.

Così gli abitanti di Dahmash hanno deciso di mobilitarsi: percorrono il viottolo in mezzo ai campi che porta alla strada principale intonando slogan, “non demolite le nostre case”, portano cartelli scritti a mano e striscioni. In testa i bambini indossano delle magliette con su scritto “recognize it”.

La Valle del Giordano è una striscia di terra lunga 120 chilometri, dal lago Tiberiade al Mar Morto, lungo le rive dell'omonimo fiume. Una vallata rocciosa semidesertica dai paesaggi mozzafiato, con un sottosuolo ricco di acqua. Una condizione che ha permesso la presenza di insediamenti umani fin da tempi remotissimi.

La Valle del Giordano è la parte più estesa dell'area C, ovvero sotto il controllo militare e civile israeliano, di tutta la West Bank.

Il 40% del territorio è stato dichiarato zona militare mentre un altro 50% è occupato dalle colonie (37, che ospitano poco più di 9 mila persone), le comunità di palestinesi e beduini ridotte alla precarietà e ai margini.   

Lungo la strada che taglia in due la Valle sterminate piantagioni, soprattutto di palme di datteri. Terre sottratte ai palestinesi e in mano a un basso numero di coloni, latifondi dove lavora a nero e senza diritti la manodopera palestinese, pagata anche un quarto della paga base prevista dalla legislazione israeliana.

Tre blindati dell'esercito ci passano affianco, dietro un gruppo di ragazzini lancia pietre sui mezzi militari, dal cui interno parte qualche lacrimogeno. Benvenuti a Nabi Saleh.

La storia di questo villaggio potrebbe iniziare con un C'era un volta un villaggio chiamato Nabi Saleh. I suoi abitanti erano gente pacifica e felice, senza voler strafare tiravano avanti.

Gli abitanti erano tutti imparentati tra loro, arrivati secoli fa su questa collina da una terra lontana, si chiamavano tutti Tamimi. La vita tra alti bassi, matrimoni e funerali, nuove nascite e dispiaceri, scorreva. Un giorno arrivarono dei signori arroganti che con i loro sgherri gli tolsero la terra, recintandola.

Mentre le piante dei nuovi arrivati crescevano rigogliose sulle ceneri di piante secolari, le terre dei Tamimi si seccavano, si aprivano crepe nella terra diventata arida: assieme alla terra gli avevano rubato anche l'acqua.

L’83% dell’acqua dei Territori Occupati è controllata da Israele: le comunità palestinesi in Cisgiordania dipendono dalla compagnia israeliana Mekorot, mentre a Gaza il 90% dell’acqua non è potabile.

Sono quasi cinque mesi che non piove in West Bank. Ma non è per questo che nelle case e nei villaggi palestinesi non c’è acqua. Il problema è l’apartheid che trasforma l’accesso all’acqua da un diritto umano inalienabile a uno strumento di oppressione e ricatto.

Per questo motivo sono diverse le realtà palestinesi che si occupano proprio di acqua: associazioni ambientaliste, ong, centri di studio. Un patrimonio di saperi, ricerche e pratiche che stiamo incontrando in questi giorni per rendere stabili e proficue le relazioni tra i movimenti per i beni comuni in Italia, a partire dalla contestazione dell’accordo tra Mekorot (l’azienda israeliana che si occupa delle risorse idriche) e la ex-municipalizzata dell’acqua romana Acea.

Negli uffici del Pengon (Palestinian Environmental NGOs Network) a Ramallah, un coordinamento di 17 organizzazioni che si occupa di ricerche sulle questioni ambientali e tra gli animatori della campagna contro le politiche di Mekorot, al servizio dei programmi di occupazione e che fa profitti rivendendo a condizioni svantaggiate l’acqua alla popolazione palestinese. Addirittura in alcune zone le famiglie palestinesi devono pagare preventivamente, tramite delle carte prepagate, l’acqua che consumeranno. Israele controlla l’83% dell’acqua nei territori occupati, garantendosi il controllo delle principali falde acquifere, dirottandola chiaramente verso le colonie israeliane garantendo il loro sviluppo, prima di tutto agricolo. Il regime di occupazione fa il resto: divieto di scavare i pozzi oltre una certa profondità e allacciarsi alla rete idrica per molti villaggi. Se Ramallah dipende per il 70% da Mekorot, il 40% delle comunità nel South Hebron Hills non hanno invece accesso all’acqua, il 70% delle comunità non ha invece impianti di depurazione per l’acqua raccolta o per quella proveniente dai pozzi.

La prima tappa della delegazione del Servizio Civile Internazionale e del Forum italiano dell'acqua, accompagnata anche da DINAMOpress, in viaggio per le South Hebron Hills.

Muovendoci verso sud, a ridosso del deserto del Negev e al limite della West Bank, la vegetazione si fa più rada. Arbusti e boschetti lasciano il posto a sassi e cespugli, gli olivi si fanno sempre più bassi, come se fossero schiacciati da una gravità lunare, con i rami appesantiti da olive grandi e quasi mature (“è stata un'estate umida”, ci dicono).

A queste latitudini si impara presto a riconoscere la geografia striata dell'Occupazione, a destreggiarsi tra zona a, b e c. Distinguere le colonie, con le loro case geometricamente ammassate l'una all'altra, e gli avamposti con i loro prefabbricati bianchi circondati da reti e filo spinato. Strade di serie a serie b, deviazioni, blocchi, divieti, muri, torrette. La geografia umana e fisica dell'occupazione che disegna status giuridici diversi ogni pochi chilometri, se non quando centinaia di metri.

At-Tuwani è un villaggio palestinese di agricoltori e pastori. Trecentocinquanta famiglie assediate, come gli altri villaggi delle South Hebron Hills, dalle colonie di Ma'On, Carmel e Susya, illegali per le risoluzioni internazionali ma riconosciuti da Israele, e dagli avamposti illegali per la stessa legge isrealiana, ma più che tollerati dalle istituzioni.

Una missione di solidarietà degli Amici della Terra Internazionale nel 2013 nei Territori palestinesi occupati, dove la delegazione ha riscontrato violazioni dei diritti umani e devastazioni ambientali.

Sono stati verificati la confisca delle terre e il dirottamente delle risorse idriche. La delegazione ha ascoltato le testimonianze di autorità, ricercatori, residenti locali e attivisti ambientali.

Molte comunità soffrono anche la mancanza di accesso all'acqua pulita e sicura a causa delle politiche idriche e delle pratiche di Israele (che discriminano i palestinesi) e il furto delle risorse idriche palestinesi da parte dei coloni israeliani.

Video prodotto da Radio Mundo Real.

Fonte: Friends of the Earth International

Natan Eshel ha negoziato un affare per Mekorot per decontaminare le falde acquifere messicane.

Natan Eshel potrebbe guadagnare milioni di shekel su un affare enorme che ha negoziato per Mekorot con la Commissione nazionale dell'acqua del Messico, La Conagua, per bonificare le fonti idriche contaminate. L'affare potrebbe valere centinaia di milioni di shekel.

Fonti informano il giornale economico Globes che Eshel, già capo del gabinetto del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha negoziato l’accordo tra Mekorot e La Conagua, gestita dal direttore generale David Korenfeld Federman. La parcella per la mediazione su offerte di questo tipo è di solito 5-8 % del totale.

Eshel ha rifiutato di commentare la notizia, dicendo che non rivela dettagli circa i suoi affari privati. È tornato al settore privato nei primi mesi del 2012, dopo essere stato costretto a dimettersi dall’ufficio del Primo Ministro a causa di un incidente imbarazzante. È considerato molto vicino a Benjamin Netanyahu e alla moglie, Sara, e continua ad aiutare sia lei che il primo ministro in vari modi, più recentemente in occasione delle elezioni.